Aridateme ‘a Lodig(g)iani

Non rivoglio indietro i miei anni spensierati della giovinezza , perché va contro il senso della vita e sarebbe, per certi versi, un po’ patetico. Non rivoglio indietro gli anni della scuola o le prime esperienze fatte fuori da casa. Non rivoglio indietro nemmeno 90°minuto con Paolo Valenti o la prima Gialappa’s di Mai dire Gol, perché la televisione l’ho sempre guardata poco. Non rivoglio indietro oggetti e persone che stanno bene nell’album dei ricordi perché li hai vissute e respirati fino in fondo. Non rivoglio indietro neanche le vecchie amicizie sulle gradinate perché, come tante cose della vita, hanno spesso generato delusioni e fegato amaro.

Eppure, qualcosa indietro dal tempo e dalla vita, la rivoglio. La pretendo, anche se a questo mondo “pretendere” vuol dire riempire l’aria di un’aspettativa inutile e logorante. E non voglio che questo qualcosa mi arrivi indietro in formato regalo dai miei anni passati, perché loro se ne sono andati con le pagine strappate dai calendari, con qualche capello in meno e qualche ruga in più.

Ma, al mondo, finché viviamo, è giusto quanto umano rivolere qualcosa indietro, ingiustamente strappato non dal flusso eterno del tempo, ma da scelte sbagliate in buona fede o da decisioni infami fatte in cattiva fede e con fini spregevoli.

Quindi.

Rivoglio indietro il mio tamburo, che mi faceva incazzare perché la pelle a volte si rompeva e poi andarla a ricomprare in giro per Roma era un’impresa, e il fondo cassa del gruppo piangeva lacrime amare. Se è per quello, mi faceva ancora più incazzare chi sbatteva la mazza del tamburo addosso alla pelle come se stesse sfogandosi con tutta la rabbia dopo una settimana frustrante. O forse stava facendo proprio quello.

Rivoglio indietro le mie bandiere, logore e sfilacciate perché cucite male e artigianalmente o perché noi pretendevamo dovessero resistere al tempo, fisico e meteorologico. Rivoglio quei buchi immensi in mezzo alla stoffa perché lo sventolio si sovrapponeva troppo e spesso alle scintille delle torce. Rivoglio quelle aste immense dove a volte, per goliardia, mettevamo in cima una bandierina piccola piccola.

Rivoglio indietro le mie torce, accese per caricare la mia squadra a inizio partita o anche “a buffo” in qualsiasi momento di gioco, magari per ricaricare il gruppo in un momento di stanca. Le rivoglio perché, se usate nel modo giusto, non fanno male neanche a un bambino; anzi, il bambino le guarda ad occhi aperti, e quegli occhi sognano di accenderne una quando sarà più grande. Le rivoglio perché, ieri come oggi, nella loro etichetta c’è scritto “Articolo di libera vendita”, e se la vendita è libera, dev’essere libero anche l’uso.

Rivoglio indietro il mio striscione. Non perché me l’abbiano fregato in maniera infame o perché andato perso nei vari passaggi di mano: lo rivoglio perché giace inutilizzato in una cantina o in un box auto, dove a volte non ci si ricorda neanche di averlo messo. Lui grida vendetta come tutti gli oggetti inutilizzati e che basterebbe riesporli una volta sola per ricaricarli interamente del loro fascino.

Rivoglio i gruppi ospiti di fronte a me, composti da tanti ultras ma anche da tanti tifosi normali, uniti nel nome di un’identità che può chiamarsi città, regione, quartiere o semplicemente ideale. Rivoglio i “Buuuuhhhh merde” quando entrano allo stadio anche se non c’è apparente rivalità, o le diatribe a ufo da una curva all’altra, dove ci si combatte con l’arma della sana dialettica da stadio, mista a ignoranza e genuinità. Rivoglio la curiosità di vedere quali saranno gli striscioni spiegati dagli avversari di fronte ai miei occhi, sapere che cori faranno e se insceneranno una coreografia. Li rivoglio perché senza di loro è come giocare a calcio in undici contro zero. E così non c’è gusto.

Rivoglio i carabinieri stupidi, che quando vedono lo striscione con Lupo Alberto sopra ti chiedono se è roba politica, o il poliziotto che preferisce comprendere prima di reprimere. Di gente così ne ho vista tanta, cattiva nell’apparenza, a volte, ma comunque onesta. Tutori dell’ordine ingenui, a volte maneschi ma che, prima di tutto, diceva sempre, a sé o agli altri, “in fondo sono ragazzi”.

Rivoglio lo strappabiglietti al posto dello steward di oggi che, quando vuole, ti fa entrare di nascosto dai dirigenti o che, quando vede un bambino lo fa passare sotto di sé facendo finta di niente. E rivorrei quei bei biglietti personalizzati dal club e stampati dalla tipografia, e non da una macchinetta del superenalotto. Rivoglio il secondo tempo gratis e il poter uscire dallo stadio in qualsiasi momento per rientrare quando mi pare.

Rivoglio il mio stadio perché, oggi come oggi, è avvolto dall’inedia e dal menefreghismo dell’uomo e della sua città, inutilizzato perché in una metropoli come Roma non puoi più permetterti minimamente di avvicinarti alla Roma o alla Lazio neanche col binocolo e, se lo fai, finisci per giocare ad Aprilia oppure a Rieti. Rivoglio il mio Flaminio perché era bello sentirsi grandi in poche unità dentro a uno stadio immenso. Lo rivoglio perché entravamo in campo a fine partita per giocare noi a pallone, paraculando e sbeffeggiando il custode che voleva mandarci via, salvo unirsi a noi, qualche volta, in una improbabile tedesca.

Rivoglio, infine, la Lodigiani. Perché io mi sono rotto il cazzo. Perché la gente si è rotta il cazzo. Perché non dico tutte le domeniche – e come potrei, ora come ora – ma almeno quella volta al mese, se non due, vorrei scaricare il peso di una settimana pesante, divertirmi, sentirmi una cosa sola col mio gruppo. Perché la Lodigiani ha bisogno di Roma come Roma ha bisogno della Lodigiani. Perché in tanti abbandonano il calcio delle grandi, dove il club vuole renderti un cliente passivo offrendoti un calcio sulla chiappa destra e due sulla sinistra rubandoti, al contempo, portafoglio, spensieratezza e divertimento. E a volte anche identità. Perché il calcio vero non è fatto di squadre nate da mille fusioni, di Lupe di ogni tipo o di Academy come se piovessero, una più anonima dell’altra. Perché Roma sa cos’è la Lodigiani e gli regalerebbe ancora il proprio figlio per insegnargli a giocare a calcio. Perché la storia non è un qualcosa che si cancella con uno spot pubblicitario o con un sito internet, ma vive di fatti concreti che, nella loro dimensione, hanno cambiato il corso delle cose in meglio. Perché, prima delle Canteras o delle Academy c’erano i vivai, e primo dei vivai era il “Modello Lodigiani”. Perché, è vero, non si può pretendere che le cose tornino indietro assieme ai nostri giochi di bambini; ma è altrettanto vero che nulla vieta al sole di risorgere e alla fenice di rinascere dalle ceneri. Perché non finisce così un amore così.

Aridateme ‘a Lodig(g)iani.